Il racconto del virus: da infopandemia a pancomunicazione

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coronavirus: infopandemia e pancumonucazione

Il Coronavirus rappresenta il grande nemico che il mondo sta affrontando in questi ultimi mesi. Una questione che si dirime tra misure mediche emergenziali e decisioni amministrative draconiane.

Anche l’uso della terminologia appare confuso, dividendosi, soprattutto mediaticamente, per un periodo tra influenza ed epidemia sino all’ufficializzazione mondiale della pandemia. In questo momento di profonda confusione alcuni punti si mostrano nella loro inequivocabile evidenza:

  • In primo luogo ci troviamo di fronte a un tipico caso di infodemia, anzi di infopandemia: un sovraccarico d’informazioni sul tema prima contrastanti, poi ipertranquillizzanti e infine giustamente allarmanti, stimoli informativi che non chiariscono la questione e soprattutto neutralizzano la legittimità autorevole di ogni fonte. Tale contrasto coinvolge e connota le differenti posizioni del mondo scientifico e di quello istituzionale, ma rappresenta anche una divisione interna al primo, dove alcuni medici per settimane hanno smentito altri sulla reale gravità del virus, catalizzando una profonda sfiducia su tutto ciò che viene detto e che prolifera, alimentato e diffuso dalle dinamiche piramidali del web. Senza contare le fake news che, in un periodo di allarme sociale e di abbassamento dei filtri razionali di interpretazione, trovano terreno fertile.
  • Le misure prese dal Governo e dalle amministrazioni locali vengono raccontate e si mostrano come strumenti di lotta impari e disperata contro il virus, mentre dovrebbero essere definite meglio, soprattutto in ambito mediatico, come mere misure di contenimento dello stesso a causa della sua alta contagiosità, dell’assenza di farmaci dedicati e del fattuale pericolo di collasso delle strutture ospedaliere. In questo caso anche un eccessivo presenzialismo mediatico dei rappresentati delle istituzioni alimenta l’allarmismo sociale e la psicosi che ne deriva. Le parole fanno paura: epidemia, pandemia… il richiamo a un epilogo catastrofista è evidente. La commistione di questi elementi fa sì che il messaggio, relativamente chiaro, che le istituzioni vorrebbero diffondere, ossia quello di evitare contatti e rimanere a casa, molte volte venga disatteso per invadere i supermercati o i tabaccai nel cuore della notte, con effetti controproducenti e potenzialmente pericolosi in termini di contagio, come è accaduto dopo gli ultimi messaggi del Presidente del Consiglio.
  • Il racconto iconografico dei mass media suggerisce scenari apocalittici che amplificano il timore e gli effetti dei punti precedenti, gonfiati anche dalla serializzazione di un’ipercomunicazione caratterizzata da continui aggiornamenti che di fatto acuiscono la percezione tensiva della situazione, soprattutto quando aumentano le vittime e i contagiati. La situazione è molto seria e la sua gravità non è calcolabile se non nel breve periodo, tuttavia anche una normalizzazione, non nei contenuti ma nelle sue modalità, della comunicazione giornalistica aiuterebbe a far comprendere meglio la difficile realtà che stiamo vivendo. Una realtà che non viene percepita da tutti con la considerazione che merita, soprattutto per il prezzo alto che si sta pagando in termine di vittime, ad esempio in Lombardia. L’overload informativo agisce per paradigmi di quantità e l’invasività di ogni immagine funziona meglio di qualsiasi altro contenuto, meglio della parola, soprattutto nei social, nell’epoca della convergenza multimediale e della società dell’immagine, provocando o un cieco allarmismo o uno scetticismo lassista, senza una giusta via di mezzo.
  • Il proliferare delle fake news, che anche in questo caso che inficiano il lavoro dei buoni comunicatori e dei divulgatori scientifici: dall’uso delle mascherine sino alla ricerca spasmodica del paziente zero, ormai inutile dato che il virus proviene dalla Cina ma sembra assumere dimensioni autoctone nelle aeree in cui è arrivato, dai rimedi fatti in casa sino alle tisane calde che uccidono il virus. Fattori che hanno aumentato esponenzialmente la destabilizzazione cognitiva, insieme a uno sfrenato individualismo baumaniano che si è palesato in diversi episodi: dal forzo del blocco nella zona rossa per scappare in piena notte fino ai locali pieni di ragazzi che brindano al Coronavirus, passando per la speculazione economica online sulle mascherine. Una grande, esecrabile irresponsabilità che ha contribuito alla situazione attuale.
  • Il passaggio dell’Italia da Paese contagiato a paese che contagia: situazione che ha causato l’isolamento del nostro Stato come paese focolaio con tutte le conseguenze economiche che ne sono derivate e di cui ancora non riusciamo a valutare i contorni. Un isolamento che ha mostrato tutta la sua superficialità: il caso italiano avrebbe dovuto rappresentare un esempio emergenziale da seguire e invece ha fatto abbassare la guardia al resto dell’Europa e del mondo, disegnando poi i contorni della pandemia. Una pandemia combattuta secondo modalità diverse che, a prescindere da tutte le valutazioni possibili, negano, quantomeno, una volontà di approccio comune, sinergico, valutato secondo i rispettivi sistemi sanitari.
  • L’illogicità caotica della comunicazione istituzionale che è passata da una situazione epidemica a una normalizzazione forzata fino all’attuale stato pandemico in un tempo relativamente breve: evenienza che ha effettivamente cozzato con la chiusura di alcuni luoghi di aggregazione, ad esempio le scuole e gli stadi, tenendone aperti altri dove il contatto era ugualmente possibile per arrivare poi, ripeto giustamente, alla “chiusura” dell’intera nazione e della sua socialità. Misure necessarie e inderogabili ora, ma qual è stato il risultato della volubilità comunicativa delle istituzioni? Una continua perdita di credibilità che continua a creare sfiducia e tradisce ogni tentativo di controllo.

 

A una drammatica incognita medica ed emergenziale, che si declina secondo dinamiche globalizzanti, si oppone una giusta nemesi: l’efficacia speculare di uno strumento strettamente sociale come il distanziamento.

La comunicazione che accompagna quotidianamente questa vicenda tuttavia continua ad apparire al contempo abnorme nella sua mole ma confusa e singhiozzante nei suoi contenuti.

Un’ipercomunicazione, come detto, divisa tra aggiornamenti drammatici di decessi, presenzialismi televisivi, teorie complottiste e negazionismi di settore, elementi che alimentano dubbi e cristallizzano una situazione di fluida incertezza baumaniana che però, per ora, non vede cambiamento.

Il concetto post-verità si è imposto prepotentemente nella letteratura comunicativo-giornalistica, e nell’uso comune, a seguito della Brexit e, più recentemente, delle presidenziali americane vinte da Donald Trump: si tratta di una derivazione dell’inglese post-truth, parola dell’anno per il 2016 per gli Oxford Dictionaries. Non sorprende che la sua diffusione sia avvenuta nella contingenza di due eventi di rilievo in ambito anglofono che ne hanno catalizzato la visibilità e l’utilizzo conseguente.

Il suo significato definisce, e al tempo stesso contestualizza, lo scenario in cui nascono e si diffondono le fake news, ossia circostanze in cui i dati di fatto sono ritenuti meno credibili e influenti nel convincere e costruire la pubblica opinione rispetto agli appelli all’emotività, ai pregiudizi e alle convinzioni personali, all’interno di dinamiche relative al confirmation bias.

La prima attestazione della comparsa del termine post-truth risale al 1992. In quell’anno Steve Tesich, in un articolo apparso sulla rivista “The Nation”, scriveva a proposito della guerra del Golfo Persico: «We, as a free people, have freely decided that we want to live in some post-truth world» (Noi, come popolo libero, abbiamo liberamente deciso che vogliamo vivere in una sorta di mondo post-verità.).

La post-verità sembra rappresentare la cifra distintiva della società contemporanea. Una falsa notizia legata al denaro versato dalla Gran Bretagna alla Comunità Europea può influenzare le sorti del voto riguardo al suo affrancamento dalla UE attraverso una narrazione svincolata da dati obiettivi ma legata a un’emozionalità retorica che coinvolge variegati ambiti comunicativi e sociali.

Quello della post-verità, tuttavia, non appare come un fenomeno del tutto nuovo: si pensi, nel passato e nel presente, all’utilizzo abituale delle fake news e della propaganda politica che demonizza l’avversario, strumenti retorico-comunicativi che mirano a gratificare l’emozionalità stereotipica delle masse. Si può affermare che la post-verità rappresenti un’evoluzione di questi ultimi che si lega a doppio filo con la capacità invasiva della Rete. La globalizzazione e la viralizzazione della post-verità, unita alla delegittimazione e alla moltiplicazione delle fonti, raggiunge un pubblico acritico, deresponsabilizzato, che soddisfa il proprio appetito stereotipico, la accoglie fideisticamente senza verificarla, anche disponendo di mezzi e possibilità finalizzati allo scopo.

Internet, attraverso la sua prepotente forza di diffusione, ha esacerbato il concetto di superamento della verità che, di fatto, neutralizza la sua importanza, relegandola all’ambito della contingenza. Una contingenza che preconizza il suo carattere fluido e provvisorio: la post-verità, infatti, spesso finisce per diventare la verità dei post nei social network, pulpiti digitali postmoderni che costruiscono postulati valoriali, credenze e opinioni in ambito comunicativo, sociale e politico.

L’utilizzo del termine post-verità è controverso e apre al dibattito. Da un punto di vista semantico, tale criticità si concentra sul prefisso post: la sua accezione relativa a un “dopo” oscura quella di “oltre” che esplica in maniera maggiormente esaustiva il concetto di superamento attraverso la speculare funzionalizzazione di annullamento.

Secondo il mio modesto parere, ritengo che il superamento fisiologico sopracitato agisca sul concetto stesso di post-verità, processo catalizzato proprio dal web. Ora ci troviamo nella stagione dell’over-verità o verità funzionale, quella che offusca, obnubila la verità stessa aggredendola, fagocitandola, mutando la sua forma secondo le circostanze e i relativi scopi, ma soprattutto obbedendo alle dinamiche della fluidità baumaniana.

Le parole hanno un peso e sono uno strumento di potere e di responsabilità: il potere di essere ascoltati e guadagnare autorevolezza e la responsabilità di influenzare masse d’individui. La loro incomprensione arricchisce paradossalmente di significato altre manifestazioni umane autoindotte o imposte, come appunto il distanziamento sociale. Esso sembra essere l’unica arma a disposizione che certamente sta cambiando e cambierà ancora le nostre vite, le loro dinamiche relazionali, neutralizzando per lungo tempo l’unione e l’empatia del contatto. Una misura che attiverà processi in cui la commistione di fattori socio-spaziali rimodulerà un particolare ordine relazionale tra i gruppi e gli individui stessi, parafrasando Simmel. Secondo vari gradi d’intensità potrebbe sfociare nell’esclusione sociale colma di risentimento preconizzata da Bauman o nell’isolamento funzionale di Sennett che si proietta nella parcellizzazione delle relazioni umane. Insomma esiste la possibilità di un necessario ripensamento del nostro modus vivendi e degli scambi a esso sottesi. In questo momento sono proprio le parole a modulare, mitigandolo, un processo di distanziamento che da misura sanitaria potrebbe diventare una consuetudine comportamentale.

La comunicazione deve neutralizzare la frammentazione infopandemica che vive e ricostruirsi in una pancomunicazione che attualizzi una collaborazione sinergica, condivisa e partecipata tra tutti gli attori internazionali.  Una comunicazione globalizzata, globalizzante e multidisciplinare, strutturata dal professionismo medico, istituzionale, psicologico e sociologico affinché concepisca e diffonda informazioni condivise guidate da un intento unitario.

Una pancomunicazione che intacchi un potenziale isolamento e risvegli la voglia di comunità, della normalità di un quotidiano che non conti più vittime ma guardi intere comunità scendere dai balconi e tenersi per mano mentre procedono verso un futuro, faticoso ma indispensabile, di rinascita.

Marino D’Amore

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