Fakecracy e over-verità: la “pseudoconoscenza”

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Fakecracy e over-verità: la pseudoconoscenza

Fakecracy e over-verità: facce della stessa medaglia

La nostra era sembra essere il prodotto della post-verità, ossia una verità che rifiuta la certezza dei dati di fatto per veicolare l’emozionalità populista e retorica che sostituisce l’informazione.

A mio modesto avviso questo ci ha condotto in una nuova stagione sociale e comunicativa che, come detto, è quella dell’over-verità o verità funzionale, quella che offusca la verità stessa, la ingloba e la plasma secondo le circostanze, i relativi scopi e le contingenze politiche, economiche e sociali.

L’over-verità è un concetto fluido, figlio della modernità baumaniana, una condizione che oltrepassa la realtà, ne mitiga l’importanza, relegandola nella condizione di evenienza collaterale.

Un modus pensandi che indirizza l’azione comunicativa e non teme la contraddizione, anzi la neutralizza negandola o semplicemente dimenticandola come se non fosse mai esistita.

Questa è l’over-verità, la verità funzionale adatta a qualsiasi situazione in cui il dato di fatto diventa accessorio, elemento non necessario, danno collaterale a volte da lasciar cadere nell’oblio.

Essa tuttavia non uccide il pluralismo informativo anzi lo amplifica, perché ogni attore comunicativo può costruirsi la sua versione dei fatti che smentisce quella dell’antagonista nel contradditorio e affermare ciò che, in quel momento, è più utile alla sua causa. Tutto ciò rappresenta una sorta di gara di credibilità che cerca di fidelizzare più seguaci possibile e i quali, tendenzialmente, nell’ambito del proprio confermation bias, saranno propensi a credere a ciò di cui sono già convinti, con buona pace del concetto di verità e trionfo dello stereotipo e del pregiudizio.

Un tale clima diventa il terreno ideale per le fake news e le fake leadership, ossia le classi dirigenti che veicolano quel tipo di messaggio, che aggregano e fidelizzano il consenso attraverso l’uso strumentale di una comunicazione faziosa, vettore di contenuti funzionali che, pur mostrando il sembiante della veridicità, non corrispondono alla verità. Quest’ultima, in questo modo, smarrisce il carattere di oggettività che dovrebbe connotarla per diventare un’opinione, anzi più opinioni intese come proiezioni e riflessioni edulcorate riguardo a un determinato evento.

Diventa in questo modo opinabile anche il concetto di cultura che dovrebbe contestualizzare quello sopracitato e che diventa un’entità effimera, liquida, proiettata verso una rapida scadenza che ne inficia l’efficacia.

Il termine cultura deriva dal latino ‘colere’ che significa coltivare. Quindi colto è colui che è stato coltivato e nutrito nell’animo e così istruito. Tra società e cultura esistono forti interrelazioni biunivoche e l’esistenza dell’una è strettamente correlata all’esistenza dell’altra. La cultura è caratterizzata dagli specifici sistemi di significati che usiamo per orientarci nel mondo sociale. Quando la cultura si basa sull’ove-verità ecco che a governare subentra la fakecracy: un sistema basato sulla pseudo-conoscenza dei fatti che amplifica il conflitto superficiale e fine a sé stesso, ogni dicotomia è manichea e costruisce il suo nemico del momento.

La Fakecrazia è la massima espressione di questa cultura e di ogni sua distorsione: un sistema che ostenta legittimità e si palesa come detentore di ogni soluzione, a cui adatta in ogni momento un’over-verità, grazie all’intrinseca fluidità che le accomuna.

Un modello di governo che si modifica in ogni situazione ed elargisce al suo popolo ciò che chiede intercettandone le volontà inespresse, pronto a reinventarsi continuamente al pari dei contenuti che veicola.

Nell’epoca dell’over-verità e della fakecracy, ciò che davvero conta è che tutto sia credibile ma non necessariamente vero.

Marino D’Amore

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