Mobbing di genere: l’Italia non è ancora un Paese per donne

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mobbing di genere

L’Italia non è ancora un Paese per donne, men che meno, se queste donne sono anche mamme. Il mobbing di genere.

Ancora oggi, la presenza femminile nel lavoro sconta ancora la divisione del cosiddetto sex typing (lavori da uomo e lavori da donna, meno remunerati) ma soprattutto disparità nei percorsi di carriera.

Famosa del resto, è la metafora del “soffitto di cristallo” coniata nel 1978 da Marilyn Loden, consulente di gestione aziendale, scrittrice e avvocato, a una tavola rotonda della Women’s Exposition di New York per indicare che, a parità di titoli e anzianità con gli uomini, le donne restano bloccate nella progressione di carriera, appunto, da una barriera di vetro, trasparente, ma resistentissima.

Essere donna, infatti, ancora oggi, ancora troppo spesso, significa essere considerata un po’ meno di un uomo.

Per quanto il livello culturale, il maggior grado di istruzione, l’apertura verso altri Paesi e quindi, verso altre realtà abbiamo permesso di razionalizzare certi pregiudizi atavici, ancora oggi in Italia e in molti altri Paesi il processo di emancipazione femminile prosegue estremamente a rilento.

E il concetto di pari opportunità (inteso come assenza di ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale di un qualsiasi individuo per ragioni connesse al genere, alla religione ed alle convinzioni personali, alla razza e all’origine etnica, alla disabilità, all’età e all’orientamento sessuale) resta un mero miraggio.

Anzi, frequentemente, le lavoratrici di ritorno dalla maternità, sono vittime di un vero e proprio mobbing.

Le motivazioni sottese alla illecita condotta aziendale possono trovare origine nell’avvenuta sostituzione della lavoratrice durante il periodo in cui è stata assente, nella riorganizzazione del lavoro all’interno del reparto o del settore, nella ritenuta minore disponibilità a rispondere alle richieste aziendali o, essere ancor più odiose, integrando una ritorsione per aver rifiutato delle avances.

Ma chiariamo che cosa s’intende per mobbing.

L’Associazione contro lo Stress Psico-sociale ed il Mobbing, fondata in Germania nel 1993, definisce tale fenomeno come: “…Una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e dipendenti nella quale la persona attaccata viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente o indirettamente da una o più persone in modo sistematico, frequentemente e per un lungo periodo, con lo scopo e/o la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro.”

Dal punto di vista sociologico, nell’ottica dell’impresa, viene in considerazione come un pressing esercitato dall’alto, nell’ambito di un modello organizzativo gerarchizzato, su un dipendente per isolarlo con la finalità di escluderlo.

Dal punto di vista medico, nell’ottica del lavoratore, viene considerato come una lesione all’equilibrio psico-fisico conseguenza del citato pressing.

La dottrina medico-legale ha delineato vari tipi di mobbing, i più diffusi dei quali sono:

1) mobbing di tipo verticale: quando la violenza psicologica viene posta in essere da un superiore (nella terminologia anglosassone questa forma viene anche definita bossing o bullying);

2) mobbing dal basso (sia individuale che collettivo): quando viene colpito un superiore, mettendosene in discussione l’autorità;

3) mobbing  di tipo orizzontale: quando l’azione persecutoria è messa in atto da colleghi;

4) mobbing individuale: quando oggetto del pressing è il singolo lavoratore;

5) mobbing collettivo: quando colpiti sono gruppi di lavoratori, spesso nell’ambito di una strategia aziendale mirata a ridurre o razionalizzare l’organico;

6) mobbing sessuale: caratterizzato da molestie a sfondo sessuale, anche se non consistenti in un contatto fisico;

7) mobbing senza intenzionalità dichiarata, ossia privo di una volontà strategica di eliminare un determinato lavoratore con azioni di violenza psicologica, ma caratterizzato, piuttosto, dall’accentuazione da parte di un pari grado (per eliminare eventuali ostacoli alle proprie ambizioni carrieristiche), o da parte di un superiore (al fine di tutelare la propria posizione gerarchica, giudicata in pericolo) della conflittualità latente nell’ambito lavorativo.

Deve inoltre farsi presente che in caso di mobbing la situazione può essere resa ancora più grave dalla presenza dei c.d. side mobber, detti anche spettatori silenziosi, ovvero dipendenti non responsabili delle condotte persecutorie, ma a conoscenza dei fatti, i quali si tengono in disparte per evitare possibili ripercussioni.

Il mobbing si svilupperebbe attraverso 4 fasi:

1) segnali premonitori: fase breve e sfumata nella quale iniziano a manifestarsi i primi screzi relazionali tra la vittima e i colleghi o il superiore. La vittima inizia ad avvertire un certo malessere, che tuttavia cerca ancora di gestire con il ricorso alla razionalità ed alla pazienza.

2) mobbing e stigmatizzazione: in questa fase si rendono palesi tutti i comportamenti del mobbing, attraverso incalzanti e reiterati attacchi nei confronti della vittima al fine di screditarne la reputazione, isolarla, demotivarla riducendone la considerazione di sé attraverso continue critiche e richiami oppure dequalificandola professionalmente e/o personalmente.

3) ufficializzazione del caso: la vittima denuncia le vessazioni, ma viene additata come soggetto psichicamente labile.

4) allontanamento: è la fase conclusiva dell’azione mobbizzante, che culmina nel completo isolamento della vittima.

Ai fini dell’accertamento dell’esistenza di un danno risarcibile, occorre verificare la sussistenza di tre condizioni:

1) l’apprezzabilità giuridica, ossia il danno psico – fisico (almeno di minima entità).

2) il rapporto cronologico e causale tra l’evento lesivo e il danno.

3) una relazione di adeguatezza qualitativa e quantitativa (gli atteggiamenti persecutori devono durare da almeno sei mesi) tra fatto illecito causativo del danno e danno stesso.

Le donne che risultano più esposte a vessazione e discriminazione nel luogo di lavoro sono prettamente le donne tra i 34 e i 45 anni, la fascia di età in cui per la donna il carico di lavoro in famiglia è maggiore.

È in questo periodo della vita che molte hanno bisogno di usufruire dei sistemi di flessibilità e riduzione dell’orario di lavoro che le permettano di essere presente in famiglia soprattutto per l’accudimento dei figli.

Questo può facilmente essere causa di malcontento sul luogo di lavoro e può innescare meccanismi di esclusione, discriminazione e violenza psicologica. Purtroppo, non bisogna sottovalutare il fatto che le vittime di mobbing, molto spesso, preferiscono arrendersi, pur di non continuare estenuanti duelli psicologici. Anche perché, dimostrare il mobbing, non è semplice: “L’onere della prova spetta interamente alla vittima e non è cosa facile dimostrare l’illecito, visto che i datori di lavoro sono molto spesso abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte delle loro vessazioni.

Avv. Roberta D’Amore

 

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